L’epidemia e i fatti
L’esperienza del Coronavirus ha insegnato a tutti qualcosa, i nostri comportamenti e modi di vivere stanno cambiando.
Fino ad ora l’uomo ha fatto ciò che voleva, quello che più gradiva, cose serie o bizzarre, invadenti, senza riguardi o troppi limiti se non quelli dell’educazione e del buon senso; non si è mai dato norme particolari da osservare, si è sempre sentito libero. La sua stessa idea di democrazia era quella di poter fare in libertà ciò che a sua discrezione riteneva giusto e lecito.
Con questa permissività ha assaporato e provato di tutto: divertimenti, piaceri, cibo, idee, emozioni; ha riempito piazze, balere, stadi, cinema, teatri, chiese. Ha vissuto liberamente, solo o tra la folla, manifestando idee e diritti per il lavoro, la libertà, il partito o il gruppo d’appartenenza.
Ora, da ormai tre mesi, nelle nostre comunità l’uomo esuberante e intraprendente è chiuso in casa per colpa di una epidemia venuta non si sa da dove; la gente non è più la stessa di prima.
L’animo delle persone è cambiato. La gente non ha più gli entusiasmi di prima. Sembra attendere qualcosa. Può uscire di casa solo osservando opportune regole d’igiene e di comportamento: usa la mascherina di protezione, si mantiene alla giusta distanza interpersonale e se necessario sta in fila e aspetta.
L’uomo in questo tempo di Coronavirus avverte un senso di smarrimento, di tristezza, paura e solitudine.
Un tempo il web era la risorsa per colmare i vuoti; tutti erano al corrente sui fatti del momento, le partite della domenica, gli umori della squadra del cuore, i capricci dei vip, sui sondaggi politici, tutte cose che oggi appaiono semivuote, prive di interesse se non di disturbo. In realtà, al nostro cittadino gli interessi non mancano, ma sono altri.
Sentiamo dire che in questi tre mesi gli italiani si sono comportati in modo esemplare, sono stati bravi per aver rispettato le norme di comportamento messe in atto dalla politica per contrastare l’epidemia.
Sarà vero? Dobbiamo crederci? La disinvoltura dimostrata da alcuni lombardi sulle rive dei Navigli non lo conferma.
Paura e solitudine
Tre mesi di ritiro nella propria abitazione sono bastati per togliere il lavoro e la buona armonia a persone e famiglie. Se a questo si aggiunge la perdita di rapporti umani e sociali è come avessimo confinato l’uomo a viver solo, perduto e abbandonato come Manon nella landa desolata americana. Non è esagerazione, le conseguenze dell’epidemia lo stanno dimostrando.
L’uomo moderno tende a soffrire l’isolamento dal gruppo, ossia di fobia dell’abbandono; ha un bisogno costante di sentirsi parte del gruppo, considerato e accettato, partecipare alla vita sociale, condividere decisioni o scelte, in pratica riconoscersi nel gruppo.
Per questo si adegua volentieri alla maggioranza. Sopportare un isolamento troppo prolungato come questo causato dall’infezione virale, non è facile e può causare conseguenze indesiderate.
Quando ancora lo stare a casa era d’obbligo ho avuto modo di leggere uno sfogo di una simpaticissima signora piemontese che so molto attenta all’evolversi dei fatti che caratterizzano la vita delle persone e del posto dove risiede: “Quale tristezza mi prende nel vedere le piazze vuote… La ‘fisicità’ è un elemento fondamentale ed essenziale alla vita dell’uomo…. Abbiamo lottato per la libertà e il miglioramento delle condizioni di lavoro… meritiamo maggior rispetto”.
Tanta è la sfiducia esistenziale che coglie questa signora al punto da manifestare il suo intimo e profondo senso di solitudine e debolezza vicini alla depressione.
Un diverso caso di sopportazione mi è stato dimostrato molti anni addietro da un cittadino di Praga, ai tempi oscuri del socialismo sovietico: “Devo ammettere che nonostante le limitazioni della libertà che abbiamo, viviamo nella sicurezza, ci sentiamo protetti, abbiamo un sicuro lavoro e godiamo della nostra modesta casa”, così mi parlava, con timore e accortezza questa meravigliosa persona che ancora oggi ricordo con nostalgia.
Non sono comunque queste le condizioni migliori da auspicare ai nostri cittadini, ma è certo che una società quando è gestita male genera paura (v. Andreoli, Le nostre paure).
Certamente con l’esperienza del Covid-19 preoccupazioni, diffidenze, ansie, angosce e paure non mancano.
Una diversa educazione alla vita avrebbe di sicuro prodotto effetti meno traumatici sul piano fisico e psichico.
Il disagio e le fobie non riguardano soltanto chi desidera stare nella società come ha sperimentato la signora piemontese, ma anche e soprattutto chi la collettività la teme o ne ha paura.
Le persone timide soffrono meno quando sono obbligate a casa, senza incontri e rapporti, perché abituate alla solitudine. Non conoscere, l’incertezza o il dubbio per queste persone è motivo di inquietudine e di profonda paura.
Le persone timide in genere hanno poche amicizie e conoscenze, sono inclini all’asocialità, parlano poco, evitano di incrociare lo sguardo del loro interlocutore, restano volentieri in disparte, taciturni, la paura li terrorizza, raramente sono disponibili a conoscere nuove persone, a partecipare a incontri, riunioni di gruppo perché si sentono costantemente osservati, criticati, spiati. Le loro ansie e paure si originano da questo e le une si sommano alle altre.
Non solo il virus uccide
Il Coronavirus non ha risparmiato nessuno: famiglie, ospedali, caserme, fabbriche, case di riposo, scuole, chiese, mezzi di trasporto. Non c’è posto o località che non sia stata interessata. I morti attribuiti all’infezione sono stati decine di migliaia; milioni i contagi nel mondo.
Le conseguenze sono state diverse e non sembrano ancora finite. Le attività lavorative rimaste ferme in questo periodo hanno messo in crisi una gran parte del sistema economico del paese. Molte aziende, attività commerciali e industrie non riusciranno più a riprendersi. I posti di lavoro si sono ridotti e divenuti incerti. Nel caso italiano la burocrazia, i guasti della politica, rendono inefficace la buona volontà dei molti cittadini che vorrebbero attivarsi con nuove esperienze di lavoro; altri invece restano immobilizzati dalla paura e dalla disperazione.
La malattia e i problemi delle conseguenze nascono in noi, dai nostri egoismi e dai nostri disordini di vita. L’ossessione di raggiungere uno sviluppo industriale, tecnologico ed economico concorrenziale, oltre ai normali fabbisogni, non ha mai prodotto grandi progressi sul piano umano, migliori condizioni di vita, ma è servito piuttosto a produrre nuovi egoismi e ad arricchire ancor più i potenti. Oggi al mondo si contano 26 ultramiliardari che detengono la ricchezza della metà della popolazione.
Cessato il clamore creato attorno questo strano virus, quando sarà tornata la calma scopriremo altre selezioni, altre ricchezze faranno stupire, vedremo i politici inneggiare ai loro successi e i cittadini alle prese con nuovi disagi e difficoltà.
Ripartire rinnovandoci
Il programma per una ricostruzione economica, sociale e politica, vista la condizione raggiunta, non potrà avere i soliti caratteri di sviluppo che ha avuto in passato. Forse è il momento di pensare ad altri valori, più rispettosi della dignità delle persone e più adeguati alla natura umana.
Il decadimento morale di questi ultimi anni è visibile in ogni ambiente di vita. Il benessere, l’avere per consumare, ostentare ricchezza e successo, l’apparire, la noncuranza dell’altro, l’arroganza politica, la corruzione, lo spreco e il disordine sociale sono aspetti che non si possono ritrattare senza una precisa e ferma “presa di coscienza” generale in grado di cambiare i comportamenti che danneggiano la vita. È questo il vero virus che sconvolge il mondo.
L’uomo moderno per abitudine, cultura ed educazione ha scelto di lasciarsi travolgere da tutto ciò che soddisfa i sensi: cibo, divertimento, sport, shopping, sesso, consumi, abiti, orpelli, vacanze, discoteche e da ogni altro piacere o attrazione. Questa è la fabbrica della disperazione.
Con questo orientamento il nostro cittadino privo di riferimenti, come un bambino impaurito è finito allo sbando, travolto e confuso da permissività e lassismi che offendono la morale.
Di questo e da decenni, si è nutrita la gente delle nostre città. Era forse necessario un virus per toglierci da questo sciocco letargo, dall’illusione di vivere in un mondo di balocchi?
Un nuovo stile di vita, più umano e sereno, consentirebbe di scoprire i piaceri nascosti del vivere; indubbiamente questo implicherebbe un’altra educazione del cittadino, una nuova cultura sociale che non si realizzano dalla sera alla mattina.
La gente sembra comunque svegliarsi; sembra capire che è stata depredata della sua vera libertà e per questo si arrabbia, ma ingiustamente, perché tutti siamo responsabili dell’attuale qualità di vita.
Ora che il lavoro e il denaro scarseggiano occorre davvero tornare alla sobrietà, ripensare alle cose semplici, con umiltà, agli impegni che esige la vita, quella vera di uomini seri e onesti.
armidochiomento@gmail.com